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Pillole di teatro antico: la “guerra assurda” nel lamento di Ecuba

Messe in scena per la prima volta durante la Guerra del Peloponneso, le Troiane (415 a.C.), capolavoro del celeberrimo tragediografo greco Euripide, rappresentano uno strumento utile all’individuazione di uno dei modi in cui la letteratura greca, nella propria natura variegata, legge, traduce e interpreta il problema dei conflitti bellici.

Come indica il titolo, il materiale rielaborato nella tragedia appartiene alla “saga” che ruota attorno alla rinomata Guerra di Troia. Il conflitto che, a metà strada tra realtà e mito, vede schierati i Greci contro i barbari troiani è comunemente percepito, infatti, dalla coscienza greca antica, come paradigma dell’esperienza bellica. La Guerra di Troia è un copione generico, in quanto remoto, attraverso il quale celebrare o, dall’altra parte, denunciare la contemporaneità.

Nelle Troiane, la caduta di Ilio è avvolta da una coltre di tangibile e pesante assurdità. Lo smascheramento del non senso come arma dell’antibellicismo euripideo trova posto d’onore già nella vicenda di Elena, drammatizzata dal medesimo autore nell’omonima tragedia. Valorizzando una versione del mito che riabilita il critico personaggio della sposa di Menelao, Euripide svela, con lucido disincanto, la precarietà e la labilità che soggiacciono allo scoppio della guerra. Non per la figlia di Leda si è combattuto a Troia, ma per un εἴδωλον (eidolon), un fantasma, una copia illusoria e instabile del vero.

Nel caso delle Troiane, l’assurdo è mirabilmente personificato dal destino della regina Ecuba e del nipote Astianatte, due volti che raccolgono il peso di un valore interpretabile, a posteriori, come universale e atemporale.

Ecuba riunisce in sé la categoria del femminile e dell’anziano: è la moglie rimasta vedova, è la madre costretta ad assistere all’uccisione dei figli, è la nonna che sopravvive al nipote, la regina che, paradossalmente, decade a schiava. Il suo incessante lamento si erge a collante di una tragedia che procede per quadri, momenti distinti di un unico, intenso, multiforme dolore. Il corpo di Ecuba, come commenta Susanetti (Susanetti D., Euripide, Troiane, Feltrinelli, Milano 2008), è lo specchio del cumulo delle macerie di Troia: quasi costantemente china su sé stessa e sulla sventura del popolo che la donna rappresenta, la posizione della regina richiama specularmente il dramma di una città in ginocchio, fisicamente e umanamente prostrata, costretta al crollo definitivo, senza speranza.

L’antibellicismo euripideo esplode in modo dirompente proprio nel pianto di Ecuba sul cadavere del piccolo Astianatte (vv. 1167-1191), uno dei momenti più emotivamente significativi dell’intero dramma. Sono caduti i ruoli, si sono svuotati i titoli: Ecuba non è più la regina e Astianatte non è più un principe. Il dolore della donna è, nella sua cruda semplicità, quello di una nonna costretta a osservare, impotente, l’irrazionale, brutale e precoce morte del nipotino. Nelle parole di Ecuba, la denuncia degli orrori della guerra si mescola a una lucida e disincantata consapevolezza della vanità delle esperienze terrene, una forma di pessimismo dal sapore squisitamente greco, adesso ulteriormente amplificata dalla catastrofica atmosfera del dopoguerra. Il senso del patetico, quasi un marchio della produzione euripidea, raggiunge, ora, tra le sue più profonde manifestazioni: il dolore della nonna e il tenero ricordo dell’innocenza e della dolce fisionomia del bimbo collidono violentemente contro la macabra evidenza di un corpicino crudelmente e impietosamente fracassato, contro il topico rammarico per una vita che il bambino non ha mai potuto veramente assaporare.

“Se almeno tu fossi morto combattendo per la patria, ti fossi goduto i tuoi anni, le gioie del matrimonio, i fasti del potere, allora sì saresti stato felice, se davvero queste cose danno la felicità.”

L’assurdità della sorte di Astianatte, vittima assoluta del meccanismo bellico, è simbolicamente rappresentata, dunque, da una morte che precede, in modo imprevedibile e non cronologico, quella della nonna.

“Ti aggrappavi ai miei vestiti e mi dicevi: - Nonna, quando morirai, mi taglierò una bella ciocca di capelli per te, condurrò alla tua tomba il corteo dei miei amici, ti dirò addio con tanto affetto. -“

Contrariamente a ogni aspettativa, non è Astianatte a dover organizzare i canonici riti funebri in occasione della dipartita della nonna. È, ora, quest’ultima a seppellire, a sopravvivere.

È interessante notare, inoltre, come il germe del non senso si annidi anche nella motivazione che giustificherebbe, a detta dei Greci, l’assassinio del piccolo: Astianatte, figlio maschio ed erede del defunto Ettore, rappresenta l’ultimo potenziale ricostruttore della città di Troia. La sua innocenza terrorizza, paradossalmente, tra i più valorosi volti dell’epica tradizionale. Una vergogna, afferma Ecuba, a tal proposito, la paura dei Greci, succubi di un fanciullo. L’accusa dell’anziana regina risulta ancora più tagliente se si richiama alla mente il valore che il concetto di αἰσχύνη (aiscune) ha nella società greca omerica. È proprio il timore del disonore che esorta al compimento di gloriose gesta, è l’ossessivo bisogno di altrui riconoscimento, anche dopo la morte, che fonda lo status eroico. Attraverso il turpe assassinio di Astianatte, suggerisce, allora, Euripide, i grandi e valorosi combattenti sembrano percorrere la strada di una grottesca degradazione. Pur di suggellare la propria assurda, labile, vittoria e di scongiurare, estirpandola alla radice, ogni possibile rinascita del nemico, i Greci si accaniscono contro il personaggio più rappresentativo di quei vinti definibili come “vinti civili”. I Greci, sottolinea Ecuba, si piegano a uccidere un bambino, la cui colpa, se di colpa si può veramente parlare, è solo quella di essere, irrimediabilmente, figlio di suo padre.

“Cosa potrà scrivere un poeta sulla tua tomba? -Questo è il bambino che i Greci hanno ucciso perché avevano paura! – Che vergogna per la Grecia questa epigrafe!”

Nelle Troiane, dunque, crollano gli eroi, crolla il mito e restano, nudi, feriti, macchiati, corrotti, gli uomini. Gli uomini di ogni epoca.


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