L’Intervista


Marco Valerio Lo Prete, abbonato N. 1 di Zafferano

Casi della vita. Una decina d’anni fa Marco Valerio Lo Prete, allora giornalista di punta (diventerà poi vice direttore) del Foglio, mi intervistò più volte, pur essendo io considerato un reprobo dall’establishment mediatico di allora.

Mi permettevo di sostenere che, al di là della forma, non era Fiat che aveva comprato Chrysler ma viceversa, e per questo, un giorno, l’Italia avrebbe perso “l’industria delle industrie”, rimanendo con quattro stabilimenti-cacciavite. Per un caso incredibile, Marco Valerio, oggi autore prestigioso del Tg1-Rai, è stato l’abbonato N°1 di Zafferano. Aveva quindi il diritto di un’intervista da parte dell’editore. Ha deciso di avvalersene.

1. Dopo l’uscita di pochi numeri di Zafferano, quale il tuo giudizio nella doppia veste di lettore e di esperto del settore?

Non mi considero un “esperto del settore”. Anch’io, come te e i tuoi compagni di viaggio, sono un “artigiano del giornalismo”. Riconosco per questa ragione, nel vostro tentativo di “ribaltare il paradigma” e offrire così una risposta alla crisi dell’editoria, le stesse domande e la stessa insoddisfazione per lo status quo che mi hanno convinto ad aggiornare continuamente la mia manualità artigiana, cimentandomi nell’ordine con carta stampata, radio e televisione. Nella veste di lettore, invece, paragonerei i primi numeri di Zafferano ai Comuni delle origini, che hanno fatto la fortuna dell’Occidente, in cui perfino l’aria rendeva liberi. Proprio quell’aria distingueva le “crisalidi del capitalismo”, per citare Max Weber, dal resto del continente allora bloccato nella disputa tra Papato e Impero o dal resto del mondo ingabbiato in civiltà “saturate di ordine e di sacro”. Per restare alla metafora, Zafferano – come quelle prime città – si caratterizza per curiosità, critica, controversia e ragionamento argomentato. Il lettore che vi s’immerge non è trattato con l’approccio ortopedico-pedagogico che gli riservano tante testate concorrenti.

2. Che ipotesi fai sul futuro di Zafferano? Sarà un attore, seppur più filosofico che reale, del “grande gioco” dei media oppure una simpatica stella cometa?

Tu stesso hai scritto che il Protocollo Zafferano, “in questa sua variante estrema” che possiamo leggere oggi, “l’editore classico non potrà mai applicarla”. Eppure, perché inizi un nuovo “grande gioco”, sarà necessario proprio che altri editori decidano di cimentarsi con le stesse domande che tu fai. Perciò mi chiedo come l’attuale modello “ricavi zero-costi zero” possa diventare sostenibile per chi volesse fare del giornalismo d’inchiesta coi suoi tempi necessariamente lunghi o per chi avesse bisogno di strumenti tecnologici più costosi di una semplice piattaforma web. Non sono pessimista ma, per rifarmi al vostro Roberto Zangrandi e alla sua rubrica “Bruxelles”, chiudo anch’io con una citazione di Bogart-Rick in Casablanca: “Non faccio mai previsioni a lungo termine”.

3. Un recente Cameo “Il Giappone dei vecchi samurai”, si è occupato di demografia. E’ lo stesso tema al quale hai appena dedicato un libro, “Italiani poca gente”, scritto col professore Antonio Golini e pubblicato da LUISS University Press. Perché questa scelta?

Viviamo in un Paese demograficamente “da record” e soltanto noi italiani sembriamo non accorgercene. L’anno scorso in Italia ci sono state 449mila nascite e 636mila decessi, con un saldo negativo record che non è colmato nemmeno dai flussi migratori pur intensi. Il tasso di fecondità nel nostro Paese è 1,3 figli per donna, distante dai 2,1 figli per donna che assicurano lo stato stazionario di una popolazione. Eppure siamo disposti tutt’al più a dedicare qualche titolo di giornale ad effetto alla previsione Istat per la quale perderemo 6 milioni di abitanti – sui 60,6 di oggi – da qui al 2065. Invece i dati più impressionanti che analizziamo nel libro, che non fanno notizia, descrivono uno shock demografico radicale già in corso. Nel 1980 in Italia c’erano 17 milioni di under 20 e 10 milioni di over 60. Oggi quel rapporto è invertito: abbiamo 10 milioni di under 20 e 17 milioni di over 60. Possiamo ragionare di lavoro, economia, welfare, innovazione e future generazioni, ignorando simili scompensi della nostra popolazione? Come scrive Piero Angela nella prefazione di “Italiani poca gente”, gli uomini e ancor più le società tendono a reagire di fronte a un pericolo quando questo è direttamente visibile, non quando è necessario simularlo mentalmente. E i mutamenti demografici, per decenni, sono stati radicali ma poco visibili ai più.

4. Nel libro “Italiani poca gente” esaminate anche il caso dell’Impero romano e di quel terzo secolo dopo Cristo che ho spesso paragonato al mondo attuale…

Fra le ipotesi più recenti e sull’eclissarsi dell’Impero romano, almeno due hanno a che fare con la demografia: la prima imputa il crollo di Roma all’espansione di alcune popolazioni barbare e ai loro spostamenti all’esterno e poi a cavallo dei confini dell’Impero, la seconda sottolinea le conseguenze dell’implosione della natalità all’interno di quegli stessi confini. Epidemie e guerre non spiegano, da sole, il declino demografico della Roma del III secolo d.C. Un contadino del “Satyricon” di Petronio diceva: “Qui nessuno cresce bambini perché se si hanno degli eredi naturali non si viene invitati ai banchetti, né agli spettacoli, si è esclusi da ogni piacere e si vive in tristezza tra la feccia”. Per il giornalista e storico francese Michel De Jaeghere, si manifestava così l’incrinarsi della “pietas”, una delle due virtù fondamentali dell’antica Roma insieme alla “fides”: “La pietas dei Romani era la pietà filiale – scrive Michel De Jaeghere – quel sentimento per cui ognuno si sentiva debitore in eterno verso tutto ciò che aveva ricevuto, alla nascita, dagli avi, dalla patria, dagli dèi immortali; per trasmettere una tale eredità poteva arrivare a dimenticare il diritto imperioso di sé”. Nella storia, comunque, non sempre “demografia è destino”. Discutere del cambiamento in atto e agire di conseguenza, dunque, è imprescindibile per chi abbia a cuore il futuro italiano ed europeo. 

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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Tommy Cappellini (Lugano): lavora nella “cultura”, soffre di acufene, ama la foresta russa
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale
Marinella Doriguzzi Bozzo (Torino): da manager di multinazionali allo scrivere per igiene mentale
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Giancarlo Saran (Castelfranco Veneto): medico dentista per scelta, giornalista per vocazione